Leggere e ascoltare Annamaria Manzoni è un’esperienza che ti tocca. Il tono pacato e le parole precise rimangono e ti portano a riflettere e a porti delle domande. Poi sta a ognuno di noi se si è disponibile a cercare risposte oppure a distogliere la mente e ritornare alle abitudini meccaniche. Ho avuto la fortuna di conoscerla e ascoltarla in diverse occasioni, sempre gentile e disposta a rispondere in modo garbato e preciso.
Nel 2015 ha accettato di collaborare a Vegan liberi tutti e mi ha donato una prefazione ricca di concetti e parole profonde com’è nel suo stile. La cosa mi ha dato un immenso piacere e le sono grato per questo scritto, che a distanza di qualche anno è purtroppo, sempre attuale. Ve la ripropongo:
Essere vegan ed essere liberi: equazione che coinvolge in egual modo gli animali umani e quelli non umani, liberati gli uni dal giogo della schiavitù e gli altri dal peso di una colpa insostenibile.
Da questa convinzione si snodano le argomentazioni di Giuseppe Coco, che ricostruisce il percorso e il senso del nostro rapporto interspecifico, con tutti i suoi addentellati, che invadono i territori della salute e dell’ambiente, ma prima di ogni altro quelli della giustizia e dell’etica, che per loro stessa natura, lungi dal potersi disinteressare degli ultimi tra gli ultimi, avrebbero piuttosto l’obbligo di considerarli soggetti principali della loro attenzione.
Inevitabilmente il discorso che argomenta per un mondo nuovo, capace di vedere tutti gli animali affrancati dall’asservimento e dal dolore, non può che incentrarsi prima di tutto e sopra tutto sul cibo: perché è intorno ad esso che si accumula la massima parte del nostro personale e diretto apporto alla grande questione degli animali: semplicemente li mangiamo, disinteressandoci del prezzo di sofferenza che imponiamo loro, minimizzandolo, giustificandolo come imprescindibile, sempre assolvendoci. Anime belle quali siamo, al di là delle tante parole di amore per gli animali, a tavola diventiamo tanto spesso corresponsabili di una crudeltà da cui pure ci affermiamo e ci consideriamo lontani anni luce.
È in effetti nel campo dell’alimentazione che vengono compiuti i crimini peggiori in termini di reiterazione e di numero di vittime: perché gli animali nel mondo vengono mangiati dalla stragrande maggioranza della popolazione, da molti tutti i giorni, da alcuni più volte al giorno: unico limite i condizionamenti economici. E ciò nonostante sia possibile, facile, sensato, oltreché imperativo morale, nutrirci d’altro.
Molte osservazioni si affastellano nel cercare il bandolo della matassa di comportamenti che coinvolgono popolazioni per altri versi tanto lontane le une dalle altre come lo possono essere quelle che popolano il mondo occidentale e i paesi poveri o cosiddetti emergenti, quelli separati da convinzioni religiose apparentemente distanzianti, paesi in pace e paesi in guerra: tutti uniti per una volta, al di là di ogni diversità, dalla ostinata convinzione che gli animali sono lì giusto per essere da noi mangiati.
Nutrirsi è azione necessaria, ma da sempre uscita dai confini della necessità per invadere quelli del piacere: non è certo un caso che la gola appaia tra i sette peccati capitali, quei “vizi” considerati tra le dannazioni che ci affliggono, quelli che riguardano la profondità della natura umana e contengono la possibilità di originare ricadute in altri ambiti.
Il cibo, quando ci si allontana da zone dove è destinato alla pura sopravvivenza, va ad occupare immediatamente l’area, peccaminosa nell’ottica religiosa, di comportamenti che perdono il loro senso originario e parlano piuttosto di sregolatezza, piacere, impulsi incontrollati. Ben poco nobili nelle loro manifestazioni se Dante riteneva i golosi degni di un girone infernale in cui li condannava a terra, faccia in giù a mordere il fango, tormentati da una pioggia incessante.
L’atto del nutrirsi è sempre contaminato da altre dimensioni: contiene valenze fortemente simboliche, intrecciate a sensazioni ed esperienze con cui si confonde perdendo la sua originale essenzialità. E’ uno dei primi scambi mamma/bambino, momento che, teso alla sopravvivenza, subito si colora di emozioni e sensazioni.
L’attenzione per il nutrimento spesso rimane prioritaria per tutta la vita nei pensieri materni: “hai mangiato?” è domanda che include e veicola preoccupazioni materne per figli da tanto tempo adulti: segno che il cibo mantiene valenze simboliche capaci di oltrepassare la concretezza e la logica della realtà.
E che dire dell’affezione per i cibi dell’infanzia che emerge con la forza di ricordi incontenibili, a cui Proust è stato in grado di attribuire la nobiltà di passi divenuti patrimonio letterario: “Portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di madleine. Ma nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso mi aveva invaso…sentivo che era legato al piacere del te e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente. Da dove veniva? Che significava? Dove afferrarla?” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto): quel sapore è veicolo di memorie, perché ad un tratto diventa chiaro che è quello della madleine della domenica mattina che la zia Leonie offriva a lui bambino, tanti anni prima, dopo la messa, intinto nel tè.
Quale potere evocativo intriso nella memoria, quali esperienze cablate nel fondo dell’anima traghettate da un cibo! Anche noi, comuni mortali senza la capacità di sublimare in righe indimenticabili le nostre sensazioni, tante volte abbiamo sperimentato il riemergere dal passato di situazioni, volti ed esperienze richiamate dal sapore, dal profumo, dall’aspetto di un cibo della nostra infanzia, che ci riporta nello spazio di una cucina a cui non avevamo più ripensato, di una situazione che pensavamo morta.
Impagabile la descrizione di John Fante della cucina di sua madre; “ Il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona….un piccolo mondo venti per venti: l’altare erano i fornelli, il cerchio magico una tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano, quei vecchi bambini richiamati a propri inizi, col sapore del latte della mamma che ancora ne pervadeva i ricordi, e il suo profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo cattivo che si perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva la sua covata dai lupi di fuori.” (John Fante, La confraternita dell’uva).
Cibi dell’infanzia che, se per alcuni sono ricordi magari intensi di un momento, diventano ancoraggi esistenziali per chi è costretto a lasciare il proprio paese per terre spesso inospitali e lontane; e allora riempiono con il profumo delle spezie o con odori intensi e privi di dolcezza all’olfatto di estranei, luoghi restii ad accettarli.
Molto più superficialmente e ai limiti del ridicolo, ricerca puerile per viaggiatori vacanzieri in crisi di astinenza per i gusti di casa propria, spaghetti al pomodoro o caffè ristretto, che assumono i contorni di oggetti del desiderio.
È l’ambito dell’alimentazione che dà voce e forma a disturbi mentali: abbuffate bulimiche di cibo, rifiuti anoressici al suo consumo, disordini di ogni tipo sono la punta dell’iceberg di disagi profondi che trovano nella modalità di nutrirsi o di non farlo una strada espressiva.
Pagine scritte da Tolstoj oltre cento anni fa continuano a non farci onore, grazie alla pregnanza che mantengono oggi: “Non c’è una solennità, un avvenimento gioioso, un’inaugurazione, che trascorre senza un banchetto. Osservate la gente che viaggia, ciò risulta ancor più evidente. I musei, il parlamento, le biblioteche come sono interessanti! …E dove mangeremo? Dov’è che si mangia meglio?” (Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne): scritto nel 1895, ma sembra questa mattina.
Ancora: quello della tavola è il luogo della fraternità e della condivisione: mangiare nello stesso piatto, o invece non farlo, è sinonimo di spartizione di atteggiamenti e pensieri; aggiungere un posto a tavola è segnale di ospitalità profonda.
Insomma, è ovvio che intorno alla tematica del cibo, con la profondità di contenuti che ad esso sono legati e da esso sollevati, si gioca una partita fondamentale che è anche psicologica ed esistenziale e anche per questo raggiunge le dimensioni stratosferiche del business che alimenta. Quello che succede in tutto ciò è che a scomparire nel mare magnum di bisogni, significati, simbolismi, impulsi e desideri sono coloro che ne pagano un prezzo incommensurabile: gli animali. Sono loro quindi che vanno fatti riemergere, vanno visti e riconosciuti come le vittime innocenti e senza peccato, devono riassumere la corporeità che a loro attiene e che sembra invece agli occhi di molti invisibile ed evanescente. Perché di solito di tutto ci si occupa in relazione al cibo, tranne che della sua essenza quando è vita animale.
Con tutto questo dobbiamo fare i conti quando ci occupiamo di veganesimo, che non è uno stile alimentare, ma è ideologia di vita. Sarebbe bello, e anche doveroso, che l’etica del rispetto e della nonviolenza da sola fosse sufficiente a ribaltare le consuetudini che investono tutti i nostri comportamenti quotidiani; che l’empatia verso gli animali giocasse da sola la partita del nostro rapporto con loro; che un elementare senso di giustizia bypassasse ogni altra pulsione. Sarebbe bello, e anche doveroso: i numeri però raccontano un’altra storia, quella di una per ora assolutamente esigua minoranza di persone che hanno deciso e sono state in grado di fare scelte conseguenti. Moltissimo resta da fare affinché una consapevolezza diversa si vada diffondendo: in questa ottica la presa in carico del veganismo come settore da raccontare, motivare, sostenere con scritti ed interventi mirati resta fondamentale, al di là di qualsiasi illusione che le spinte altruiste, inclusive del bene degli altri, possano avere vita e sviluppo autonomi.
Nella consapevolezza, che deve trasformarsi in responsabilità, che nella stratosferica lotta per i diritti animali, il campo dell’alimentazione è quello in cui ognuno di noi, oggi stesso, può apportare un personale e fondamentale contributo, spostando il focus dell’interesse dalla propria pancia e dalla propria testa e dal proprio cuore a quelli speculari degli altri animali. Decidendo una volta per tutte in quale mondo vogliamo vivere.
