Guardo il formicolare intorno ai supermercati e ai negozi alimentari, i furgoni che dall’alba a notte fonda consegnano la spesa a domicilio, intuisco che, nonostante le restrizioni e le paure imposte, anche quest’anno le feste, tra Natale e la Befana, saranno una continua libagione. I pretesti per perpetuare questi riti sono tanti:
«Visto che ci tocca stare in casa, almeno ci si svaga.»
«Al povero nonno non ci possiamo avvicinare, ma almeno gli s’allunga qualcosa da rosicare.»
«Godiamocela, perché mi hanno detto, che tra poco ci saranno tempi peggiori, ci razioneranno pure luce e riscaldamento.»
Dopo aver pappato per quasi un mese, il sette gennaio in molti ricominceranno a parlare di mettersi a dieta cercando i consigli più rapidi ed efficaci per smaltire i chiletti di troppo. Anche dai mezzi d’informazioni inviteranno ad affidarsi a uno stile alimentare tradizionale e sano.
Così, in questi tempi in cui la paura di ammalarsi e l’incertezza della esistenza sono parti integranti del nostro transito terreste, in molti, più di prima, rafforzano l’ancestrale bisogno di salute e longevità che li porta a adorare una divinità, nata circa negli anni ’50: La Dieta Mediterranea!
L’informazione mainstream le ha conferito un’aurea religiosa, specie da quando nel 2010 l’UNESCO l’ha dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità. Da anni antropologi, tuttologi radiotelevisivi, esperti della materia e profani in vena di dissertazioni ci invitano dalle pagine di libri e giornali e dagli schermi multifunzionali, a santificare questa divinità che porta lunga vita e salute.
In realtà il calderone informativo ha creato una certa confusione a causa di notizie a volte discordanti e poco chiare. Alla fine qualcuno ha creduto che la dieta mediterranea si rifacesse allo stile alimentare adottato dagli antichi greci, altri invece, a quello che mangiavano i loro nonni contadini (oggi fa fashion vantare un passato contadino come fosse un titolo nobiliare), infine, qualcuno più accomodante, rinfrancato dai guru alimentari fluttuanti nella galassia televisiva, si è convinto che il suo è già lo stile mediterraneo doc sano e osannato (pasta, pane, olio, carne, formaggio, pesce, verdura più o meno può essere questo l’ordine della percentuale di consumo).
Parafrasando le parole di Don Alfonso del Così fan tutte si può affermare: la dieta mediterranea “come l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice; dove sia nessun lo sa.”
Il prodromo del mito si manifesta nel dopoguerra: 1951 la FAO organizza a Roma un grande convegno per riorganizzare la questione nutrizionale di tutta l’Europa, specie dei paesi più poveri e maggiormente danneggiati dalla Seconda Guerra Mondiale. Il vecchio e malconcio continente chiede aiuto all’America la terra ritenuta il faro, l’esempio da seguire grazie al suo benessere e opulenza e così viene invitato il famoso biologo, fisiologo ed epidemiologo Ancel Keys, già noto per aver inventato la Razione K (la porzione alimentare indirizzata ai soldati, per sopravvivere alcuni giorni). A un convegno dove si parla di carenze nutrizionali e malnutrizione Keys dichiara che negli Stati Uniti invece, hanno un altro problema, l’ipernutrizione, e chiede aiuto agli esperti per cercare di capire perché il 50% degli adulti maschi muore d’infarto.
Il suo quesito viene ignorato da tutti escluso Gino Bergami, medico napoletano, il quale afferma che, a parte pochi casi, nella sua città erano sconosciuti infarti e patologie cardiache.
In seguito, Bergami invita l’americano incredulo a verificare di persona, così Ancel Keys e la moglie Margaret Haney (biologa anche lei) partono alla volta del sud Italia. Studieranno la popolazione di Napoli e Nicotera, iniziando un lavoro di screening su maschi adulti di età compresa tra i 39 e 59 anni, la stessa fascia su cui avevano fatto lo studio statunitense, scegliendo tra classi sociali medio basse, in particolare gli operai dell’Italsider e vigili.
Scoprono che il campione mangia carne solo una volta settimana, la domenica (il mitico ragù di defilippiana memoria), invece durante la settimana la dieta è a base di verdure, cereali integrali, legumi, prodotti caseari. In particolare, annotano l’abbondante uso di zuppe e minestroni in cui si mette pasta corta, riso o del pane duro sotto forma di friselle.
Dalla comparazione tra i dati dei due studi l’elemento discrepante è il colesterolo che tra gli italiani ha un valore basso. In conclusione, il campione italiano, nonostante condizioni di vita più povere, gode di miglior salute rispetto a quello opulento americano. Nei coniugi Keys s’insinua l’idea che benessere non è sinonimo di salute.
Nel 1957 Keys inizia un’analisi comparata sugli stili alimentari di sette Paesi (Finlandia, Giappone, Grecia, Italia, Jugoslavia, Olanda e Stati Uniti) per cercare di capire cosa influenzi il diverso stato di salute delle popolazioni. Per avere dati validi lo studio durerà anni e sarà eseguito su un campione di circa dodicimila individui. I dati finali andranno a formare il Seven Countries Study. Tra i risultati emerge che l’ipertensione e l’ipercolesterolemia producono l’arterosclerosi causata principalmente da una dieta ricca di grassi di origine animale.
Comincia a germogliare l’idea che la salute è influenzata da ciò che mangiamo.
Nel 1963, i coniugi Keys affascinati dalle tradizioni alimentari italiane, che ormai però, in molte zone, è iniziata a sparire grazie al boom economico, si trasferiscono a Pollica, più precisamente a Pioppi, nel Cilento, una zona ancora lontana dal frenetico progresso. Lì vivranno fino alla fine dei loro giorni.
Nel 1975 Ancel Keys pubblicherà un libro dove per la prima volta compare Mediterranean way e questo stile di vita mediterraneo diverrà la Dieta Mediterranea che il 16 novembre 2010 sarà dichiarata dall’UNESCO, Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.
La denominazione dieta mediterranea non è riferita alle preparazioni gastronomiche, ma a un certo stile di vita, tendenzialmente sobrio e conviviale, che segue il ritmo delle stagioni e i prodotti tradizionali della terra.
In questo patrimonio culturale non c’è solo la comunità del Cilento, troviamo anche altri piccoli paesi del bacino del mediterraneo come Koroni in Grecia, Soria in Spagna, Chefchaouen in Marocco, Agros a Cipro, Tavira in Portogallo, le isole di Brač e Ivar in Croazia e via via l’elenco aumenterà.
Gli alimenti contemplati sono: cereali (pane, pasta, riso, …) verdura, legumi, frutta, frutta secca, olio d’oliva e un moderato consumo di pesce, uova, latticini, carne rossa e vino.
In fondo le osservazioni di Ancel Keys si possono considerare una rilettura dell’antico buon senso che nelle tradizioni antiche veniva racchiuso nel motto: sei quel che mangi.
In alcune antiche medicine come quella Tradizionale Tibetana o la Scuola Medica Salernitana (ma non sono le sole), già secoli fa veniva data importanza alla dieta e allo stile di vita secondo l’età e la stagione, così come rivestiva un ruolo importante la quantità di cibo ingerita.
Quello che ci viene raccontato dai mezzi d’informazione a volte tende a banalizzare la dieta mediterranea con ridicole nozioni da spot pubblicitario (l’olio d’oliva fa bene alle arterie, il vino protegge il cuore, il formaggio italiano combatte l’osteoporosi, …) sembra che sia prevalente solo la qualità degli alimenti e ci sia poco spazio per la varietà a tutto tondo e inoltre, a un orecchio critico, si ha la sensazione di essere spinti a un consumo senza freno di cibi spacciati come panacea.
Se guardiamo intorno ci possiamo rendere conto, purtroppo, che dietro la denominazione Dieta Mediterranea spesso prevale il mero commercio di piatti arricchiti di carne, latticini e derivati dove è quasi obbligatorio il consumo di vino, cibi raffinati e abbondanza di portate, ovvero tutto il contrario dei principi base culturali riconosciuti dall’Unesco: uno stile di vita in armonia con l’ambiente, in linea con la stagionalità e favorisce l’utilizzo delle risorse nutrizionali locali.
A voler allargare gli orizzonti, queste basi si potrebbero considerare un abbozzo di quello che, con maggior precisione e adeguatezza temporale, viene esposto con il Piatto Veg un sistema nutrizionale in cui si tiene conto della salute e del benessere del pianeta e degli esseri senzienti.
Forse bisognerebbe fare un passo avanti e sganciarci da certe tradizioni ormai anacronistiche: non siamo più i contadini che lavoravano la terra con il proprio corpo, neppure gli operai dell’Italsider con turni massacranti. Nella maggior parte dei casi viviamo una vita sedentaria e frenetica, competitiva, tra sedie, macchine, digitazioni touch e palestre; non abbiamo più le risorse ittiche di un tempo e l’inquinamento del mare è dilagante; il dispendio di acqua e cereali necessari in ogni tipo di allevamento è un prezzo troppo alto per le risorse idrogeologiche che si stanno esaurendo. Inoltre, la nostra sensibilità ed etica si sta modificando (purtroppo molto lentamente) e sempre più ci si rende conto che non ha senso nutrirsi di sofferenza e schiavitù inferta agli animali.
Quindi proviamo a portare avanti valide alternative vegetali nella speranza che l’UNESCO prima o poi dichiari patrimonio immateriale dell’umanità lo stile di vita Veg Mediterraneo.
